Studi e Ricerche
Alzheimer e altre malattie neurodegenerative: individuato un meccanismo che ci fa capire come bloccare le proteine tossiche
Ricercatori israeliani hanno identificato in che modo le cellule comunicano per mantenere l'integrità delle proteine. Lo studio, pubblicato su Nature Cell Biology, apre prospettive interessanti su futuri trattamenti
di Ruggiero Corcella - Corriere della Sera
Con l'avanzare dell'età, l'intricato equilibrio dell'omeostasi proteica (proteostasi), il sistema responsabile del mantenimento della salute cellulare assicurando che le proteine siano correttamente ripiegate, inizia a vacillare. Questo declino porta all'accumulo di aggregati proteici tossici, un segno distintivo e una causa sottostante di malattie neurodegenerative come l'Alzheimer. Un nuovo studio, pubblicato su Nature Cell biology, condotto dai ricercatori dell'Università Ebraica guidati dal professor Ehud Cohen e da Huadong Zhu del Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare presso l'Istituto per la Ricerca Medica Israele-Canada (IMRIC) in collaborazione con il laboratorio del dottor Yonatan Tzur dell'Istituto Alexander Silberman di Scienze della Vita, fa luce su un nuovo promettente modo di affrontare questo problema, con implicazioni che - a detta degli autori - vanno ben oltre la ricerca di base.
Che cos'è l'omeostasi delle proteine
L'omeostasi delle proteine, o proteostasi, identifica l'azione di una rete complessa di percorsi essenziali alla funzione e alla sopravvivenza delle cellule. Garantisce inoltre la concentrazione e il ripiegamento corretti, oltre alle giuste interazioni delle proteine, dalla sintesi alla loro degradazione.
Poiché l'incapacità delle cellule a mantenere la proteostasi è una caratteristica dell'invecchiamento e delle malattie legate all'età, quali l'Alzheimer, il Parkinson e la malattia di Huntington, è stato ipotizzato che il mantenimento di tale meccanismo potrebbe ritardare o prevenire invecchiamento e malattie.
Un nuovo complesso nucleolare
La ricerca, effettuata in vivo su vermi, identifica un complesso nucleolare, FIB-1-NOL-56, come un attore centrale nella regolazione della proteostasi a livello cellulare e dell'organismo. Sopprimendo l'attività di questo complesso, il team ha osservato una marcata riduzione degli effetti tossici del peptide Aβ associato all'Alzheimer (beta amiloide, proteina che si accumula nel cervello formando le placche tipiche della malattia neurodegenerativa) e di un'altra proteina patogena, negli organismi modello. Questa scoperta approfondisce la comprensione di come il corpo gestisce lo stress cellulare e offre un ulteriore filone di ricerca per trattamenti futuri che potrebbero ritardare o prevenire una miriade di devastanti malattie neurodegenerative.
Scenari futuri
«I nostri risultati vanno oltre il banco di laboratorio», spiega il professor Cohen. «Le malattie neurodegenerative colpiscono milioni di persone in tutto il mondo, con un impatto sulle famiglie e sugli assistenti. Scoprendo come le cellule comunicano per mantenere l'integrità delle proteine, stiamo aprendo la porta allo sviluppo di approcci terapeutici preventivi che potrebbero ritardare l'insorgenza della malattia e migliorare significativamente la qualità della vita degli anziani».
Un filone di ricerca già ben avviato
La ricerca israeliana, in realtà, non è una novità in senso assoluto. «Quello sulla proteostasi e l'invecchiamento cerebrale o, diciamo, sulla senescenza in generale è un elemento noto da tempo e un filone di ricerca ben avviato», spiega il professor Alessandro Padovani, presidente della Società italiana di neurologia. «L'elemento di novità potrebbe essere il fatto di collegare la proteostasi direttamente alla malattia di Alzheimer e all'amiloide. Si può contrastare l'amiloide, garantendo o rafforzando i sistemi di resilienza neuronale, attraverso il miglioramento dei meccanismi di proteostasi». In altre parole, agendo sul meccanismo evidenziato dal nuovo studio si potrebbe rallentare o prevenire malattie come l'Alzheimer.
La «resilienza» dei neuroni
E aggiunge: «È vero che i neuroni con l'età diventano meno efficaci nel contrastare situazioni di stress, e non c'è dubbio che l'accumulo di amiloide, la cui causa non è ancora del tutto chiarita - cioè il perché alcuni cervelli accumulino amiloide e altri no è un elemento su cui la ricerca non ha ancora dato delle risposte plausibili - , ma è vero che l'amiloide che si accumula agisce come "effetto stress" sul sistema. Ed è vero che il sistema reagisce. Uno degli elementi di resilienza è dato da questo sistema di proteostasi che permette al neurone di contrastare gli effetti tossici di sostanze diverse. Vale per l'alcol, come anche per l'amiloide. Per cui è effettivamente logico pensare che, se si interviene sui sistemi di compenso del neurone, si riesce a contrastare l'effetto dell'amiloide. Rimane da capire come questo sistema di miglioramento dell'efficacia di proteostasi del neurone possa essere raggiunta, dovendo poi regolarlo su 80 miliardi di neuroni».
Ancora molto lontani da una possibile terapia
Da qui alla traduzione dello studio in nuove terapie, quindi, il passo non è affatto breve. «Siamo piuttosto lontani da una ricaduta non dico in termini immediati, ma anche a medio termine sugli studi per le terapie - spiega il professor Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto Mario Negri di Milano -. Da un punto di vista della biologia cellulare è un lavoro interessante, che mette in evidenza alcuni fenomeni. Però che questo sia possibile tradurlo in uno sviluppo terapeutico, è tutto da verificare».
«Si potrebbe pensare prima o poi a trovare dei trattamenti che agiscano a livello neuronale, migliorando questi sistemi di omeostasi cerebrale - agiunge il professor Padovani -. In altre parole, già per esempio ci sono proteine legate all'inflammasoma, che è un altro sistema correlato allo stress. L'infiammazione sistemica in qualche modo agisce su questi sistemi, di "resilienza neuronale". È probabile che a livello sperimentale si possano individuare meccanismi, ovvero trattamenti, che permettono di mantenere questa proteostasi neuronale efficace al punto da contrastare, indipendentemente da quanto accumulo di amiloide abbiamo».
Le linee di ricerca più promettenti
All'Istituto di Ricerca Mario Negri, si stanno seguendo due filoni di indagine: «Uno è quello di interferire direttamente con l'aggregazione della beta proteina, un contesto in cui noi abbiamo sviluppato un po' di approcci sperimentali con qualche soddisfazione - racconta il professor Forloni - . L'altro invece riguarda poter interferire, e questo è un pochino più complicato, proprio con la produzione del precursore della beta amiloide, quindi anche in contesti diversi dall'Alzheimer, riducendo la "benzina" che poi può produrre gli effetti negativi della proteina una volta alterata nella malattia. Poi stiamo cercando di mettere in evidenza il ruolo dell'infiammazione, ovvero come sia possibile attraverso l'infiammazione regolare anche questi fenomeni»
Le terapie a disposizione
Quali sono le strategie tereapeutiche di cui oggi disponiamo e che sembrano più promettenti, dunque? Risponde il responsabile del Dipartimento di Neuroscienze del Mario Negri: «Adesso è stato approvato anche dall'EMA questo anticorpo monoclonale (lecanemab, ndr) e adesso sarà approvato anche l'altro contro la proteina beta amiloide e dagli studi, soprattutto negli Stati Uniti, è emersa appunto una qualche efficacia di questo approccio, finalmente dopo vent'anni dai primi dati sperimentali».
«Dobbiamo tuttavia verificare come veramente poi questi farmaci funzionino nella pratica quotidiana. Per diversi motivi: è necessario selezionare con molta attenzione i pazienti; il tipo di trattamento prevede insomma un po' di indaginosità; poi occorre controllare gli effetti secondari. Quindi, l'idea di avere come target l'amiloide è quello che ha guidato la ricerca per molti anni e che adesso finalmente è arrivata in clinica con una qualche evidenza. Come sempre in questi casi non bisogna né enfatizzare gli effetti positivi, né distruggere quello di positivo che invece emerge».
Il processo infiammatorio
«Poi sul filone dell'infiammazione ci sono altri, approcci attualmente in indagine anche a livello clinico, perché l'infiammazione sembra contribuire in maniera importante nello sviluppo della patologia, non solo per l'Alzheimer ma per tutte le malattie neurodegenerative. Anche qui bisognerà capire bene chi e quando è possibile trattare. Insomma l'idea di questa famosa medicina personalizzata implica che nello scenario complesso della malattia di Alzheimer le componenti più o meno le conosciamo, ma il peso di ognuna probabilmente dipende dal soggetto. Quindi riuscire a modulare in maniera adeguata uno o l'altro a secondo del paziente che si ha di fronte, potrebbe essere la soluzione».
I marker biologici
«L'ultimo tema all'ordine del giorno - conclude il professor Forloni - e che adesso ha avuto molti sviluppi, riguarda i marker precoci della patologia che consentono di individuare prima i soggetti da poter sottoporre a terapia. Si tratta della scommessa di questo momento, sebbene negli Stati Uniti si tenda un po' a esagerare questo aspetto a discapito della ricaduta clinica che tali fenomeno devono avere».